Cosa accade quando un trauma fisico colpisce l’organismo? La questione si chiude con la guarigione del “pezzo” colpito, o c’è dell’altro? Cosa rimane nell’unità psicobiologica dell’essere a testimonianza dell’evento traumatico?
L’essere
umano ha una costituzione multidimensionale, vale a dire che non
possiede solo una dimensione fisico-chimica (come il pensiero medico
dominante crede), ma anche una dimensione emozionale, mentale, animica.
Parliamo di un’unità integrata, interconnessa, coerente e complessa. Parliamo insomma della vita.
Ora il tema che trattiamo in questa occasione è ciò che accade quando
una lesione fisica interferisce con questa unità multidimensionale.
Andrea
è in sala operatoria. È stato trasportato d’urgenza, la sua appendicite
acuta rischia di diventare peritonite. C’è il dolore, ma anche la
paura, una grande paura per la propria incolumità. Tutto il suo essere
sente che è in gioco la sopravvivenza. Il clima intorno a lui è teso,
drammatico, concitato. Viene velocemente anestetizzato, ma l’anestesia
addormenta solo la parte cosciente di Andrea, non la consapevolezza
profonda dell’organismo, che resta sempre viva e vigile, anche nel
sonno. L’intervento viene eseguito con successo, si era arrivati appena
in tempo, il pericolo è scongiurato. Questo salvataggio d’emergenza ha
però un prezzo, l’interruzione dell’integrità corporea. Si è dovuto
giocoforza incidere una struttura vitale estremamente complessa, fatta
di tessuti cutanei, fasce muscolari, fibre nervose, vasi sanguigni,
pareti viscerali. Il taglio ha spezzato la meravigliosa rete di
comunicazione che unisce ogni cellula e ogni organo del corpo di Andrea.
Ora c’è un varco, una falla nella struttura, che va riempita d’urgenza
e a tutti i costi. Il corpo non può ricostruire la tessitura originaria
della zona del taglio, allora organizza una “toppa”, il tessuto
cicatriziale appunto. Questo non è un tessuto funzionale come gli
altri, ma è solo una grossolana “pezza” per turare la falla, ha solo
una funzione cementante, ed altro non le si può chiedere. Il tessuto
cicatriziale non è un tessuto ordinato, ma un ammasso caotico di
cellule connettivali e collagene, che alla meglio cerca di riparare la
lesione. Ma sappiamo che nessun rammendo è mai uguale alla stoffa
originale...
Questo ha delle conseguenza non solo estetiche (che tralasciamo in questa sede), ma specialmente funzionali.
Il comportamento di una cicatrice è differente da quello del tessuto
circostante. Tanto per cominciare, già a livello della membrana
cellulare le caratteristiche bioelettriche sono diverse: ogni cellula
possiede una carica elettrica, o per meglio dire una differenza di
carica fra l’esterno e l’interno della membrana, misurabile in circa 80
milliVolts. Le cellule traumatizzate e quelle cicatriziali hanno una
polarità insufficiente, o instabile o addirittura invertita, quindi
sono vive ma funzionano male, e la loro condizione di “fibrillazione”
elettrica disturba il funzionamento delle cellule sane. Le fibre
nervose nella zona della cicatrice possono entrare in una condizione di
irritazione cronica, o perdere sensibilità, o divenire sensibili ai
cambiamenti elettromagnetici (tipico il fastidio, come molti sanno,
durante i “cambi di tempo”).
Questo dal punto di vista
strettamente biologico. Ma torniamo al nostro amico Andrea, nello
scenario operatorio. Ricordiamoci dello stato di paura e allarme, sia
in lui che intorno a lui. Il taglio del bisturi in quel momento fa sì
che quel preciso stato emozionale, con quella configurazione energetica
così potente, si registri nel corpo insieme alla lesione fisica,
proprio nella zona del trauma. Si crea una memoria dell’evento, una
fotografia multidimensionale, fisica, emozionale, mentale, paragonabile
ad un ologramma. La situazione è così precipitosa e grave che non vi è
né modo né tempo per elaborarla emotivamente e intellettualmente: la
priorità è la sopravvivenza. Così tutto quel marasma emozionale si
legherà nel punto focale del trauma, quello che nel tempo diventerà la
cicatrice. Quindi abbiamo ora una memoria, un vero e proprio file
archiviato nel tessuto vivente. È, come già detto, una memoria
olografica, multidimensionale:
- fisica, il dolore, la morte delle cellule, la violazione dell’integrità corporea;
- emozionale, ansia, paura, ecc.;
- mentale, le convinzioni che sono legate all’evento, del tipo “non ce la farò”, “è stata colpa mia”, “sto per morire”, ecc.
Tutti questi elementi formano un mix che è la rappresentazione di come
Andrea ha vissuto quell’esperienza. Ora l’importante è questo: la
memoria psico-fisico-emozionale resta registrata localmente, ma per il
principio olografico coinvolge l’interezza dell’organismo. E non viene
più percepita a livello cosciente. Andrea ricorderà sì quell’evento
come un momentaccio della sua vita, ma non si renderà conto di come
tutto il non elaborato di quel momento influenzi la consapevolezza
profonda del suo essere esattamente come fosse ora. È un blocco di
dolore congelato, incistato, che non giunge alla coscienza critica,
come fosse sempre sotto il pelo dell’acqua. Ma non senza conseguenze:
l’azione di disturbo su tutti i livelli dell’essere è continua e
sottile. È un’informazione patologica e patogena, e come tale potrà
dare luogo ad ogni sorta di manifestazione sui vari piani dell’essere.
Andrea potrebbe infatti cominciare a soffrire di qualche dolore
cronico, una cefalea o una lombalgia, ad esempio. O potrebbe avvertire
disturbi intestinali di vario genere. Sul piano emozionale, potrebbe
cominciare a mostrare una leggera ansietà, o percepire un senso di calo
energetico generale, o un senso di insicurezza verso la vita
(ricordiamoci dell’elemento paura racchiuso in quella zona), con
atteggiamenti vitali di evitamento/fuga, o di aggressività. O al
contrario, potrebbe anche svilupparsi una anestesia emotiva, un blocco del sentire, e quindi piattezza emozionale, con viso inespressivo e blocco dell’affettività.
Dal punto di vista mentale poi, può accadere che il cervello di Andrea
cominci ad elaborare delle strategie di difesa, che si traducono in
convinzioni a supporto e giustificazione della nuova condizione, di
tipo autolimitante: “detesto questo”, “non posso quell’altro”, “devo
per forza questo”, “è pericoloso fare quest’altro”, ecc. Queste
convinzioni orienteranno le sue scelte future, condizionando e
limitando il suo percorso di vita.
Ora,
dal punto di vista del pensiero medico dominante, Andrea “non ha
nulla”. La cicatrice si è chiusa perfettamente, non si riscontrano
segni oggettivi di qualche patologia, le analisi stanno a posto,
insomma non si riesce a dare un nome alla condizione di Andrea. Quindi non ha un bel nulla. Punto.
Eppure la sua qualità di vita è cambiata. Vi sono modificazioni
profonde e sottili. La sua capacità di elaborare stimoli e informazioni
dall’ambiente è ora diminuita e distorta. Il funzionamento dei suoi
organi, pur senza sfociare ancora in una lesione organica, è alterato:
qualcosa è più di quello che deve essere, qualcos’altro meno. Quelli
che hanno la possibilità di percepire il campo energetico umano, di
solito vedono (o per meglio dire sentono)
nella zona della cicatrice come una mancanza energetica, o come un buco
o un’area scura, o una distorsione. È l’energia congelata, che blocca
il flusso normale delle correnti energetiche dell’essere umano.
Il processo non è cosciente: Andrea non si rende conto delle risorse che investe per proteggere il proprio “tesoro” di dolore. Paradossalmente, è proprio l’instaurarsi di atteggiamenti protettivi e difensivi a dare origine col tempo a disturbi. Inizia così a prendere consistenza una catena di effetti che forse col tempo porteranno finalmente a qualche malattia “vera”. Non tutte le cicatrici però comportano guai del genere: nella maggioranza dei casi si raggiunge infatti un compenso fisiologico, ed è solo quando l’organismo non riesce a far fronte al trauma che nasce il problema.
E l’anima, in tutto questo?
Essa ha bisogno di uno strumento fisico/emozionale/cognitivo per
realizzare i suoi scopi nell’esistenza. Se quello strumento comincia ad
autolimitarsi e a perdere energia vitale, anche l’espressione animica
subisce limitazioni ed opacità. Diventa più difficile aprirsi a
comprensioni più elevate e manifestarle nella vita, come pure accedere
alla percezione della bellezza e della gioia. Gran parte delle energie
vitali sono costantemente impegnate a tenere a bada quel “sacchetto” di
dolore, e ciò distoglie energie e risorse da altri compiti più elevati.
La connessione con la Fonte diventa più debole, discontinua, perché il
nostro amico Andrea si ripiega su se stesso per proteggere la propria
ferita, e nel ripiegamento c’è chiusura e non apertura.
Alla fin fine è l’energia creativa a soffrirne, ostacolata nella sua
manifestazione. Ecco perché parlo di cicatrici dell’anima.
E allora, cosa fare? Come risanare questo “buco nero” vitale?
Vi sono tanti modi, ognuno con le sue peculiarità; cito quelli che conosco:
- Neuralterapia. Si infiltra la cicatrice con una soluzione di fisiologica e procaina, un farmaco ad azione ripolarizzante sulla membrana cellulare.
- Laserterapia. Un fascio di fotoni infrarossi viene “spennellato” sulla cicatrice.
- Ozonoterapia. Una miscela di ossigeno e ozono viene iniettata nel tessuto cicatriziale.
- Attivazione Tissutale®. La zona viene
trattata con l’apparecchiatura per la CRM Terapia®, reinformando il
Sistema Nervoso della situazione anomala locale.
- Fiori di Bach. L’essenza Walnut viene frizionata sul tessuto cicatriziale.
- Massaggio connettivale. Si esercitano delle trazioni meccaniche sui tessuti.
- Metodi energetici. Correzione della distorsione del campo aurico mediante il flusso di energia guaritrice delle mani.
Come vedete, ce n’è per tutti i gusti. Ora supponiamo che Andrea decida
di affrontare questo problema e scelga uno qualunque dei metodi sopra
elencati Cosa possiamo aspettarci? Ebbene, la cosa più probabile è che
Andrea, durante il trattamento, riviva in parte o completamente
l’evento traumatico connesso alla cicatrice. Potrebbero affiorare
semplicemente dei ricordi (l’odore della sala operatoria, le voci di
quel momento, immagini, ecc.). Come pure possono emergere le sensazioni
emotive provate in quella situazione, oppure i pensieri e le
convinzioni che si sono strutturati allora. È una breve fase, che può
presentarsi in varie gradazioni, e che indica la rielaborazione in atto
dell’evento traumatico. Il trattamento non fa altro che aprire
quell’incistamento energetico ed esporlo alle capacità guaritrici
dell’organismo, il quale oggi è in grado di fare quello che allora non
gli era possibile. Avviene quindi un’integrazione di quella energia
bloccata nella totalità energetica dell’organismo, che ora è libero di
espandersi. All’inizio questo risultato non è stabile: occorrerà
qualche altra seduta distanziata nel tempo per resettare
completamente la cicatrice e concludere il processo di integrazione. La
cicatrice resta sempre lì, ma smette di interferire sul resto
dell’organismo. Un altro fenomeno comune è questo: se la cicatrice è
legata ad un dolore o disfunzione fisica, questa letteralmente scompare
nel momento stesso del trattamento. Ad esempio, potrebbe
istantaneamente sparire quella lombalgia o quel dolore al ginocchio.
Piccoli miracoli in apparenza, che però la comprensione delle dinamiche
energetiche dell’organismo svela come fenomeni del tutto ordinari.
Pur lavorando sul piano fisico e su un’area molto delimitata del corpo,
con il tempo anche l’assetto psico-emotivo cambia, nella direzione di
una maggiore apertura, fluidità e flessibilità, segni certi questi di
un cambiamento positivo della globalità della persona.
Dott. Michele Acanfora
Medico Chirurgo
Presidente del Centro Studi MEDICINA OMEOPATICA
via S. Giovanni Bosco 15 - SALERNO
tel. 089.79.36.24
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